Ci sono mille modi per esprimere pensieri, emozioni e sensazioni: non sono solo le parole a dover essere traslate.
Come si rapportano interpreti e linguaggio non verbale e come questo influisce sulle traduzioni?
Facciamo un passo indietro: quando parliamo di interpreti parliamo di veri esperti, che con le loro abilità riescono a restituire all’ascoltatore non solo una corretta traduzione ma anche le intenzioni e le idee del parlante.
Va da sé, pertanto, che per riuscire in questa impresa gli interpreti devono necessariamente avere una visione d’insieme che parta dalla conoscenza della lingua, dalla sintassi e dalle regole grammaticali, e finisca con una buona comprensione della cultura, degli usi e dei costumi del parlante.
Tra le sfumature di questa vasta gamma di nozioni e conoscenze, c’è anche il linguaggio non verbale. Questo tipo di linguaggio comprende ogni sorta di “non detto” e lo esplicita, trasformandolo in una frase, in una domanda, in un’azione o anche semplicemente in un certo tipo di intonazione.
Riuscire a comprendere il linguaggio non verbale è fondamentale per l’interprete. In alcuni casi – pensiamo a un parlante restio o che sta vivendo un momento di grande tensione – il difficile compito di parlare va, infatti, al professionista che sta cercando di rendere comprensibili i pensieri di chi ha di fronte.
Sempre senza dimenticare il suo ruolo neutrale, l’interprete dovrà cercare il più possibile di rendere chiaro anche quanto viene espresso da sguardi o gesti. Questi ultimi in particolare possono assumere significati diversi in base al paese di origine del parlante: basti pensare ai diversi modi di salutare in tutto il mondo, che possono essere fraintesi se non avviene una corretta mediazione.
Il linguaggio non verbale assume dunque importanza pari a quella del linguaggio verbale: conoscerlo non è un plus, ma una necessità imprescindibile per svolgere il ruolo di interprete.